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#neindeleggecose - Libri - Recensione "Cani dell'inferno" di Daniele Benati - Quodlibet edizioni

Titolo: Cani dell’inferno
Autore: Daniele Benati
Editore: Quodlibet
Anno: 2018
Pagine: 316
Genere: Narrativa/fantasy
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Qualche mese fa ero a Roma per un giorno e, mentre facevo un giro nel mio quartiere preferito, la vetrina di una libreria mi ha ammaliato come le sirene con Ulisse. Così, ho inevitabilmente varcato la soglia d’ingresso per dare un’occhiata.
Quando entro in una libreria la mia mente si svuota e i miei sensi vanno quasi in trance per riuscire a percepire ogni vibrazione delle parole scritte nei libri. Le copertine sono il primo tramite, loro lo sanno e si mettono in bella mostra.
In quella libreria l’occhio mi è caduto su Cani dell’inferno. Copertina pulita, colorata quanto basta, semplice ma efficace. Casa editrice dal nome curioso. Autore da scoprire. Ho letto la bandella per cercare di capire. Tra il detto e il non detto mi è sembrato un libro particolare e l’ho comprato.

Non c'è una trama unica e ben precisa, tant'è che non è semplice parlare del libro in generale senza apparire a tratti addirittura criptici. Ogni capitolo ha un protagonista e un suo scenario che, però, in qualche modo si richiamano agli altri.

“… avevo una casa spaziosa da tenerci dietro e dovevo farlo nel modo migliore possibile, m’avevano detto. Una casa al numero 3847 di Mystic Avenue che era stata ricavata da una dépendance di una grande villa la quale era stata a sua volta trasformata per metà in un grande albergo e per l’altra metà in un ristorante McDonald’s. Ci sarebbe anche una terza metà che hanno ceduto all’ateneo universitario, ma lì non ci ho mai messo piede per scaramanzia, m’hanno detto.”

In un tempo indefinito dieci personaggi dai nomi o cognomi o soprannomi, non si sa bene, bizzarri che cominciano tutti per P, raccontano la stessa condizione umana ognuno dal proprio punto di vista. Eppure, una vocina continua a chiamarli tutti Joe.
Lo spazio dove si svolge l'azione è letteralmente circoscritto al quartiere di una città americana, dove al 3847 di Mystic Avenue è situato un grande edificio. Qui, attraverso i bagni di un McDonald’s, si accede a una prestigiosa università e ai vari piani del palazzo.
Tutti i mister P protagonisti della storia, anzi delle storie, ritornano sempre, loro malgrado, nei vari luoghi di questo posto, dopo i loro giri e i loro incontri e nonostante la voglia di andare via.

“Solo che quando sono risalito in superficie con le scale mobili ho fatto la scoperta di essere tornato nello stesso punto da cui ero partito e cioè al numero 3847 di Mysti Avenue, a meno che non ce ne fosse stato un altro uguale identico nel comprensorio della città.”

Sono stati mandati lì dal governo italiano come impiegati al consolato o come professori all’università. In realtà sembra che sia tutto una specie di copertura per espatriati o deportati politici.
Ogni personaggio somiglia all’altro e racconta un qualcosa che pare ogni volta inconsapevomente già detto. Le vicende si intrecciano tra noia, solitudine, ossessioni, presunti amici, storie amorose, intellettuali o pseudo tali, citazioni colte che si alternano ciclicamente mentre ognuno dei personaggi vaga ricorsivamente alla ricerca di una chiave di svolta della propria vita.

È l’esistenza in sé a fare da sfondo alle parole. Il tentativo di darle un senso rappresenta l’incipit di ogni azione che, poi, prende forma in un probabile e allegorico Inferno. Il 3847 di Mystic Avenue è un Inferno nel quale si vive espiando i peccati di una società dei consumi capace di dare nutrimento soltanto alla solitudine e alla falsità.

Tante narrazioni, insieme diverse ma simili, quante sono i protagonisti e la sensazione è che stiano lì, come scene di un film, in attesa di diventare un unico racconto. L’atmosfera generale è onirica, inquieta, tragicomica, spesso assurda e claustrofobica.
I personaggi, per esempio, sono realmente dieci o sono voci di un’unica identità, Joe?

“Che non sia allora questo Joe l’anima universale di quel filosofo là, come si chiamava, quello antico? Quello che diceva che c’è l’anima universale… che poi gli Arabi la vedevano come un angelo e degli altri come un gallinone che arriva su in alto fino al cielo”.

Non sanno perché si trovano lì dove sono, non sanno come ci sono arrivati, non ricordano il loro passato e quasi sempre non conoscono neppure il proprio nome. Pare che si siano appena risvegliati dal coma.

“Quando s’è accorto che l’osservavo s’è affacciato alla finestra e ha detto: Come va, Ponci? Io sono rimasto colto di sorpresa perché non ricordavo di chiamarmi così e poi non mi sembrava neanche che ci conoscessimo. Ci conosciamo? gli ho chiesto. Ma come! ha detto lui, non ti ricordi? sono Pugnaghi. Ah Pugnaghi, gli ho detto, anche se non mi ricordavo”.

La lettura scorre perché il linguaggio è quasi familiare, a tratti ironico. Lo stile è alquanto stravagante, probabilmente a volte un po’ troppo. Per esempio quando, in barba alla grammatica, ci si ritrova l’ausiliare avere in luogo dell’ausiliare essere. È come se la forma, la sintassi, il lessico rispondessero a un codice espressivo a parte, funzionale al racconto, dove si ripetono interi periodi uguali, si ritrovano spesso le stesse parole, dove i regionalismi contrastano con qualche aggettivo ricercato qua e là, dove i dialoghi non sono virgolettati.

Dalle prime pagine il libro mi è sembrato avvincente ma, andando avanti, ho fatto un po’ di fatica a mantenere lo stesso entusiasmo iniziale. Una lettura strana.
La struttura è certamente diversa da quella solita della narrativa e, per quanto sia bizzarro anche il contenuto, in ogni capitolo si riesce comunque a ritrovare qualcosa del proprio quotidiano.

“Mentre lo diceva menava la sua mano a mulinello guardandomi in tralice per vedere se ne ero convinto anch’io. E questo mi portava alla convinzione che stava mentendo un’altra volta perché quando si mente è difficilissimo collocare un gesto esattamente dove dev’essere in relazione alle parole che si dicono e spesso è in anticipo o in ritardo o dura troppo a lungo”.

Ciò che si legge può essere tutto e il suo contrario, in un vortice pirandelliano di realtà, apparenza e finzione.
La ricerca affannosa di una logica nella propria esistenza da parte dei protagonisti incuriosisce, intriga il lettore ma nello stesso tempo gli mette addosso un’ansia che poi non si dissolve in alcuna risoluzione.
Dopo un po’ quel non sapere mai niente di certo, quel non sapere come approcciarsi alle persone e alle situazioni finiscono quasi per annoiare e qualche meccanismo diventa pure prevedibile.
Sembra da subito che le storie raccontate si incastrino ma fino alla fine non si capisce precisamente in che modo.
In questi casi il lato positivo è che puoi dare al libro l’interpretazione e il finale che meglio rispondono alla tua creatività ed emotività.
Un pizzico di delusione, dunque, da parte mia per questa lettura ma devo dire che l’idea di fondo è piacevolmente insolita e che alcuni spunti di riflessione sono comunque interessanti.

Non sconsiglio mai di leggere: ogni libro ha in sé la preziosa capacità di insegnare qualcosa. La variegata molteplicità dei punti di vista, fra cui il mio, fa il resto.

Rosalba Carchia